Sono un vecchio leccio dalla chioma possente, abito nel parco, dove aveva vissuto anche mio nonno, prima questo luogo era chiamata ” la selva marittima di Terracina”, dove vivevano anche i nostri cugini: sughere e querce così grandi, che servivano le braccia di due boscaioli per cingerci. Le mie radici sono libere, come i miei immensi rami.
Tosati come barboncini
Sono la casa di una gran varietà di uccelli, anche i picchi si divertono a tamburellare sul mio tronco. Ogni anno produco un numero infinito di ghiande, con la speranza di far crescere un bosco intorno a me. Invece i miei figli sono stati trapiantati su un marciapiede in un minuscolo buco, in cui le radici non hanno spazio, tra cemento ed asfalto, crescono sfittici e brutti ed ogni anno, neanche fossero barboncini vengono tosati, dire potati è impossibile, trasformandosi in ridicoli birilli, palline o non so cosa.
“Non siamo alberi da marciapiede”
Eppure ricordo i discorsi degli architetti che hanno disegnato questa città: lungo le strade pianteremo oleandri, alberi di Giuda, pruni, piccole essenze in linea con la dimensione delle case e delle strade. Mi fa male vedere i miei figli imprigionati così, possibile che non si comprenda che non siamo alberi da marciapiede? Che siamo stati creati per la foresta, là è la nostra casa, là dobbiamo stare. Così parlando il vecchio leccio scuote la sua chioma e ricorda i vecchi corsi pieni di fiori e colori e quei giovani uomini, pieni di buon senso e amore per quella giovane città
